Puoi dire di essere veramente cresciuto quando di Kinder Sorpresa ti interessa più la cioccolata che la sorpresa.
Io
Il Mulino Bianco è una ciminiera nera
Beppe Grillo
Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna
Proverbio popolare
Se non possiamo andare a Curaçao, Curaçao viene da noi: in questo preciso momento dovevamo essere sull’isola dei caraibi olandesi, e per ovvi motivi non siamo partiti, così sabato ci siamo comprati le Fiesta, farcite del liquore omonimo, e adesso che ne abbiamo fatto indigestione ci sentiamo, almeno, un po’ in Italia.
“Mamma, mi mandi le Tenerezze?” chiedeva Davide, uno dei miei primi amici ad andare a studiare all’estero, al telefono dall’America, mentre si apprestava a guardare il festival di Sanremo, con qualche gabola più o meno legale a cui tutti noi expat ci siamo da tempo abituati, e intanto pregustava i famosi dolcetti del Mulino Bianco.
Io lo prendevo in giro, perchè nel pacco che puntualmente Davide, che adesso è professore a Boston, riceveva, c’erano anche i Buondì Motta di cui direi tutto fuorché siano un cibo a cui far fare il giro del mondo.
Adesso invece conosco gente che per un Buondì Motta è disposta anche a barattare sua madre e anch’io al cospetto di una Girella potrei inchinarmi o mettermi a piangere, a seconda dell’umore del giorno.
Se chiedi agli Italiani all’estero cosa manchi loro di più dell’Italia ti risponderanno, dopo i vari primi posti fatti di mare, sole, mamma, la pizza, la piazza etc, una serie di nomi di industrie associati alla versione piena di conservanti e coloranti, e probabilmente cancerogena, della madeleine proustiana.
Se dici Gocciole, Pan di Stelle, Tegolino, Abbracci, Ringo, Baiocchi, Estathé, Fonzies giù giù fino al borotalco Felce Azzurra ne riceverai in cambio un urlo strozzato e la richiesta di un kleenex. Se il succo Billy non fosse andato fuori produzione io probabilmente ci farei un’overdose. Per una folta schiera di italiani nel mondo si tratta di prodotti e marche, spesso pronunciati insieme come fossero nome e cognome e tutto d’un fiato in un’unica parola, noti solo nel Belpaese e non tradizionalmente in vendita altrove, minimo comun denominatore di una generazione cresciuta a TV e merendine. Questi nomi rappresentano una culla, un porto sicuro di ricordi e gusti con un intrinseco bagaglio nostalgico dal potenziale incalcolabile che fa solo una cosa: ti fa sentire a casa quando a casa non sei.
Ci sono delle volte in cui vado in Italia, entro in un supermercato e mi sfondo di Grisbì, Kinder Brioss, Tender Milka fino a quando non mi viene l’orticaria, giurandomi e spergiurandomi sempre che li porterò ad Amsterdam intatti per sentire meno la mancanza nei mesi a venire: non arrivano vivi non dico all’aeroporto, ma neanche allo sportello della macchina fuori dal super.
Naturalmente, nel 2020 la globalizzazione vuole che, con un po’ di fortuna, intuito, e una buona rete di informatori che nulla ha da invidiare a un gruppo segreto di controspionaggio degno di un film di 007 – particolarmente attivo l’autunno scorso, ai tempi del lancio sul mercato dei Nutella Biscuits, – tu abbia non solo sempre l’equivalente di miocugggino/miiocuggino, l’italiano di turno (genitori in visita, amico, collega, fratello o, appunto, cugino di collega) che ti può portare “la roba”, ma anche che i negozi che vendono le “primizie” italiane non manchino.
Sabato scorso allora, siccome a Curaçao non siamo potuti andare, siamo andati a prenderci la Fiesta che del curaçao, il liquore che proviene dall’omonima isola olandese, è farcita. Fatta la nostra regolare fila, indossati mascherina e guanti, siamo entrati all’ingrosso italiano che c’è qui ad Amsterdam. Per arrivarci devi attraversare un parco, fare una pista ciclabile che si annida su se stessa come una scala a chiocciola, passare attraverso ponti e sottopassi in mezzo alla zona industriale della città, e sei arrivato.
Questo luogo del desiderio, dove ti conviene andare “già mangiato” se no ci lasci le penne e un buco nel petto (questa volta abbiamo speso 137 euro e giuro che ho lasciato giù metà della roba che volevo, tra sambuchemolinari e sofficinifindus) fornisce i ristoranti italiani di tutta Amsterdam.
Il motivo vero per cui siamo andati è che volevamo portare ai nostri amici italiani di qui un uovo o una colomba, ma erano finiti. Così a Pasquetta, anche se anche qui vige il distanziamento sociale e “chiamavano brutto”, siamo andati a suonare il campanello a questi amici sparsi per la città, in una sorta di via crucis del conservante, e abbiamo lasciato il tipico kit italiano del pranzo al sacco: Fonzies, Fiesta, Estathé, Bacio Perugina, Ovetto Kinder, tutti e 5 i gusti conosciuti all’uomo, umami compreso, in un solo pacco.
Mentre pensavo a come cambierà adesso il claim dei Fonzies, la storia che se non ti lecchi le dita godi solo a metà, scendeva ad accoglierci la nostra amica Renata, perché adesso si fa così: non sei tu che vai dagli amici in casa, sono loro che vengono in strada da te. Ancora Maometto. Renata aveva in mano una bottiglia di Amaro Montenergo e tre bicchieri che abbiamo bevuto lì, sulla strada.
Quando siamo arrivati sotto casa di Gaetano, invece, ci ha detto: “Sono andato anch’io in quel posto ma pensavo avessero prelibatezze italiane come mozzarella di bufala e olive taggiasche, non i Fonzies!”
Mentre mi veniva la bava alla bocca, Milo, che la mattina me le aveva praticamente strappate dalla bocca se no non tornavano i conti, ha dovuto tenermi buono perché non chiedessi le Fiesta indietro.
PS: anche all’ingrosso italiano di Amsterdam le penne lisce Voiello non le vuole nessuno.