Tredici anni, tredici anni, ma che strana età
orizzonti di barriere sparsi qua e là,
tredici anni per me,
tredici anni per te.
Tredici anni, tredici anni quante verità
come un lampo ogni pensiero abbaglia la realtà,
tredici anni per noi,
tredici anni per voi.C. d’Avena Tredici anni
Da piccolo dicevo “raggi ultraVIOLENTI” (facevano male alla pelle, no?) e non capivo come mai, due volte l’anno nei negozi, comparissero cartelli con la parola “saldi” invece che “soldi”: se lo scopo dell’iniziativa era farti risparmiare, per me si trattava chiaramente di un errore di battitura.
Più o meno nello stesso periodo, avevo preso a coniugare in maniera del tutto personale la prima persona singolare del verbo svenire. Quando il mio povero fratello maggiore era costretto con me e giocare a Creamy e io, per qualche strana ragione del mio personalissimo plot, perdevo i sensi, gridavo, con squillantissima voce da bambina: “Svenooo!!!” (da dove mai veniva fuori la g?!).
Forse dicevo così proprio perché non mi era mai capitato, di svenire.
Questa è la storia della prima e unica volta in cui sono svenuto: è successo a un concerto di Cristina d’Avena (ogni promessa è debito).
Correva l’inverno del 1991, Saddam aveva da poco invaso il Kuwait, e nei cinema d’Italia era arrivata La Sirenetta. Io per apparire, come si direbbe adesso, sempre sul pezzo, avevo visto bene di assomigliare il più possibile al coprotagonista del film, il granchio Sebastian, tingendomi i capelli di acqua ossigenata con un noto prodotto che pubblicizzano in TV e che, a onor del vero, mi aveva comprato la mamma (garantito dai nostri laboratuàr).
Le differenze coi miei compagni di classe sono note: loro parlavano di calcio e ragazze, io annuivo e ogni tanto dicevo “ieri era fuorigioco secondo me”, tutti mi guardavano male mentre mi rispondevano: “Ieri non si giocava….”, poi i capelli color carota li distraevano e io tornavo a casa dove, al sicuro tra le quattro mura della mia cameretta, imparavo a memoria l’albero genealogico delle famiglie di Sentieri e ancora ascoltavo le canzoni di Cristina.
Quell’anno, in una delle stagioni del telefilm Arriva Cristina che la vedeva per protagonista (Cri Cri, 70 episodi!) con la sua band cantava una canzone dal titolo: Tredici anni (tra le altre hit di quell’album: Precipitevolissemevolmente e Belli dentro!). Che era esattamente l’età che io compivo in quel periodo, nel gennaio di 30 anni fa. Sembrava l’avesse scritta proprio per me. Ogni volta che la cantava in TV mi immaginavo che me la dedicasse: ah, se l’avessi potuta incontrare!
E infatti.
Le mie cugine Francesca (quella del balletto) e sua sorella maggiore Chiara, fresca di patente, furono così carine che, proprio per il mio compleanno, mi regalarono il biglietto per il concerto di Cristina d’Avena. Non avevo mai visto Cristina dal vivo e la ascoltavo da anni: proprio come la sigla di Cri Cri narrava, era un sogno che si avverava.
Il concerto si svolge nel palazzetto dello sport di Schio, in provincia di Vicenza, la mia città, nel pomeriggio di una domenica di fine gennaio. Quando arriviamo fa molto caldo, siamo tutti coi cappotti in mano. Quando Cristina sale sul palco, tra le urla generali e il mio cuore che salta un battitto, lei ci chiede, ci implora, di metterci seduti, in modo che tutti possiamo vederla bene.
Francesca e io le cantiamo tutte – anche la “mia” Trecidi anni, urletti di inizio e tutto – sotto l’occhio paziente e vigile di Chiara. Tra le cose che ricordo: Cristina che è preoccupata per Saddam che fa bruciare i pozzi petroliferi e per gli animali morti (io mi immaginavo cerbiatti ma stiamo parlando del Kuwait: che animali ci sono in Medio Oriente?).
Il concerto finisce, Cristina annuncia che avrebbe firmato autografi (quello che oggi si chiama Meet & greet) e Francesca e io, sotto lo sguardo santo di Chiara, ci guardiamo come per dire: beh, ovviamente non ce la facciamo mancare! Solo al pensiero di conoscere il mio idolo mi viene da svenire.
Ci alziamo quindi tutti in piedi ed è lì che accade: svengo.
Neanche il tempo di mettermi in posizione da Rossella O’Hara con il palmo sulla fronte e gridare “Svenooo!!!” che sono a terra: una macchia color carota tra tutto il cappottame scuro. Dura tutto pochi secondi: Chiara, sotto la cui responsabilità mi trovo in quel momento, diventa forse più color cencio di me, arrivano i paramedici che constatano che non ho niente, probabilmente un colpo di calore. Ma, dicono, se vogliamo, possono provare a vedere di farci incontrare Cristina… saltando la fila. SE VOGLIAMO?!?! Francesca e io non crediamo alle nostre orecchie e speriamo davvero che… arrivi Cristina.
La gioia dura poco: alla fine ci portano solo due cartoline autografate (non sappiamo se al momento, ma ci piace pensare di… no!): la cartolina è sparita dal muro di casa non appena il primo amichetto maschio etero ha messo piede in camera mia ma stiamo parlando di anni dopo, alle superiori. Da quel concerto e per anni ho modellato la mia firma sulla sua, essendo simili i nostri nomi (Cristina d’Avena, Carlo Dal Sasso), con tanto di… cuoricino sotto! (Cercando un esempio su Google, ho scoperto che i suoi autografi originali sono in vendita su eBay. Se avessi ancora quella cartolina potrei essere più ricco… di ben 20 euro!)
Di mettersi in fila per incontrarla a questo punto neanche a parlarne. Chiara mi porta a casa e sempre bianca come un cencio (quasi sul punto, anche lei, di svenire) racconta l’accaduto alla mamma. Col suo solito fare pratico – stiamo del resto parlando della stessa che armava la mia mano di acqua ossigenata in bagno! – constatando che sto bene, la mamma non si preoccupa più di tanto.
Il giorno dopo, in classe, non racconto ad anima viva l’accaduto: è qualcosa che non ho mai confessato ad anima viva e che ho tenuto imbottigliato nel mio cuore.
Fino ad ora.