Di Vancouver e del Lions Gate Bridge ho letto per la prima volta a 18 anni nel già qui pluricitato Memoria Polaroid di Douglas Coupland.
È un ponte costruito nel 1938 che collega downtown, tramite Stanley Park, alla parte Nord della città, al di là della baia.
Uno dei simboli della città, è amatissimo dai suoi abitanti.
Nei giorno scorsi sono andato in perlustrazione attraverso il parco, sotto e oltre il ponte, verso l’ora del tramonto, per avere lo scatto migliore (piss’inpressa quale sono, mi sono anche arrampicato tra i rovi invece di fare una strada di 30 secondi più lunga, solo per paura di perdere la luce giusta!).
In mezzo al parco, proprio verso l’imboccatura del ponte, il bosco lascia posto a tronchi spezzati ed erba rada: sembra la testa di un vecchio che va lentamente in piazza. Pensavo fosse lo scempio dell’inciviltà umana nell’avanzare di chissà qualche cantiere, poi invece ho letto (sempre su un altro Coupland) che sono i segni di un devastante temporale che ha sradicato moltissimi alberi nell’estate del 2006.
Forse nella vostra città si trova una struttura architettonica così enorme e grandiosa da divenire, solo per il fatto di esistere, una vostra architettura mentale, una struttura che funziona da imbuto per i vostri sogni, le idee, le speranze.
Nella mia città, Vancouver, c’è una costruzione del genere, un ponte delle fiabe che si chiama Lions Gate Brigde. Tre arcate che collegano la città di Vancouver ai sobborghi della North Shore, dove sono cresciuto, e le montagne e le foreste della British Columbia appena oltre quei sobborghi.Per la gente non abituata ad attraversare il Lions Gate Bridge, le discussioni tra guidatori sulle condizioni del traffico sul ponte possono apparire di una noia e un’intensità sconfinate: “Com’era il traffico?”.
“Una corsia sola.”
“Bloccato?”
“Già.”
“Dall’altra parte erano vuote tutte e due le corsie?”
“Già.”
“Dev’essere arrivato il traghetto a Horseshoe Bay.”
“Stavo quasi per andare al Second Narrows, ma credevo che dopo le sette sul Lions Gate non ci fosse nessuno.”
“I traghetti arrivano all’ora pari o alla dispari?”
“Ah, e poi un ingorgo…”
(Completare con urlo disperato del guidatore che non conosce il Lions Gate).Alla fine del 1986 ero tornato a Vancouver dopo un anno trascorso fuori dal Canada. La sera del mio ritorno avevo guardato il ponte e mi ero accorto che i profili parabolici delle campate erano adorni di luci come perle brillanti. Lo spettacolo era così incantevole da lasciarmi senza fiato.
Avevo domandato a mio padre il motivo di tutte quelle luci, e lui aveva risposto che le chiamavano “Collana di Gracie”, dal nome di un politicante cittadino. Nei quasi cinquant’anni da quando era stato costruito il ponte, la città aveva sognato, in segreto, il giorno in cui sarebbe riuscita ad ammantarlo di luce, e il sogno era diventato realtà.
Oggi, quando faccio ritorno a Vancouver, è sempre la Collana di Gracie che cerco con lo sguardo allungandomi verso il finestrino dell’aeroplano, lo spettacolo che ho assolutamente bisogno di rivedere per sentirmi di nuovo a casa. Qui a Vancouver dimentichiamo spesso di abitare nella città più giovane del mondo, una città quasi completamente, e totalmente, del ventesimo secolo; e che proprio questa è la maggior fortuna di Vancouver. È la dolcezza della Collana di Gracie a rammentarmi che abitiamo non tanto in una città, quanto nel sogno di una città.
Douglas Coupland, Memoria Polaroid
Blog Comments
LUCY
Marzo 17, 2011 at 11:22 am
questo di D.C. mi manca!