Dieci anni dopo

  • Maggio 28, 2020

Io e te lo stesso pensiero
io e te il tuo il mio respiro
sarà tornare ragazzi e crederci ancora un po’
sporcheremo i muri con un altro no

Renato Zero, Amico

«Il motivo principale per cui la gente se ne va dai paesini di provincia» diceva sempre Rant, «è perché così poi può sognare di tornarci. E il motivo per cui ci resta è per sognare di andarsene». Con questo Rant voleva dire che nessuno è felice, da nessuna parte.

Chuck Palahniuk, Rabbia

Ricorderò il 2010 come l’anno in cui ho deciso che avrei realizzato un mio desiderio che da troppo tempo cullavo e accarezzavo, senza il coraggio di svegliarlo: andare a vivere in America, andare a vedere un po’ di mondo.

Il 30 maggio di dieci anni fa partivo alla volta di New York per quella che, nella mia testa, doveva essere l’avventura di una vita. Mi vedevo come un emigrante di fine ‘800 che mollava tutto per non voltarsi più indietro.

Qualche giorno prima, organizzammo con tutti gli amici una festa di addio, che finì a tarda notte dopo una sessione interminabile di karaoke culminata con “Amico” di Renato Zero con gente sfigurata dalle lacrime, il rimmel si strucca e tutto. Leggenda vuole che esista un filmato di quella canzone, mai più recuperato: io, personalmente, non sono più riuscito a cantarla senza che mi venga il groppo in gola.

La  storia ha voluto altrimenti: dopo i tre mesi canonici di visto turistico in America, sono tornato a Vicenza, ma ci sono rimasto solo due settimane e sono ripartito poi, nel settembre di quell’anno, per la destinazione del piano B: Vancouver, dove sarei rimasto per sei mesi.

Nel giugno dell’anno seguente sono salpato alla volta di Londra, dove ho vissuto un anno.

Poi sono tornato a Vicenza per cinque anni e da tre vivo nei Paesi Bassi, dove ho trovato anche l’amore – pare quello con la A maiuscola, ma è sempre meglio non scriverlo, che sennò porta sfiga, – con cui vivo da qualche mese.

Un bilancio di questi dieci (che poi sono cinque) anni vissuti all’estero?

Quando sono partito mi sentivo appunto di avere in mano un biglietto di solo andata. Adesso dopo dieci anni ti dimentichi un po’ i motivi per cui hai voluto evadere dal posto in cui “tutti sanno il tuo nome”. Ti manca casa e con l’Italia hai un rapporto di amore e odio o, come dice la mia amica Laura, quello che sostiene Chuck Palahniuk in Rabbia nella citazione qua sopra. 

Non se ne esce: come dice Lara, passi metà della vita ad andartene da un posto che ti sta stretto e l’altra metà a tentare di tornarci.

Qualche settimana fa però mi è successa una cosa che dovrebbe mettere a tacere una volta per tutte l’inquietudine interiore, che qualsiasi italiano a cui manchi la piazza della sua città conosce bene.

Ho dovuto spiegare alla mia insegnante di lingua perché l’azienda mi aveva messo in quarantena. L’ho fatto in olandese, con tutti i problemi di comprensione del caso, ma insomma, a dire il concetto “casa”, thuis, ci arrivo.

Solo che è partito un corto circuito perché io continuavo a dire: “Sono stato a casa qualche giorno e adesso mi hanno costretto a lavorare da casa due settimane”, intendendo con la prima casa l’Italia.

Ma lei continuava a ripetermi la frase al contrario: “Sei stato in Italia due settimane”… E io dicevo: “No! In Italia qualche giorno”…

Insomma, non se ne andava fuori.

A un certo punto mi ha guardato e mi ha chiesto: “Scusa, ma tu da quanto abiti ad Amsterdam?”

“Tre anni”, ho risposto.

“E allora” – ha ribattuto – “dov’è la tua casa?”

*** 

Una volta con Milo abbiamo fatto questo discorso, tirando in ballo il senso di sradicamento tipico di chi come noi vive qui ma con la mente spesso là.

Lui, sempre molto pratico, ha tagliato corto e mi ha detto: “La mia casa, adesso, è dove ci sei tu”.

E per me, naturalmente, vale lo stesso.