La prima parte di questo post ha stimolato due belle risposte (e un’osservazione ilare da dalsino, che verrà soprasseduta in questa sede! Del resto anche la mamma mi ha scritto: “Non si capisce cosa vuoi dire: lo parlate bene o no?”).
Credo che Tommaso, che ringrazio e saluto, con il suo intervento abbia centrato il senso di quello che volevo dire, e che però non ho esplicato: più si parla l’inglese, più c’è da imparare, specie se abiti in un paese dove esso è la prima lingua. Che è quello che osserva anche Simone, che non conosco personalmente ma saluto.
All’ICC (Italian Cultural Centre), dove faccio il cameriere, imparo vocaboli nuovi che non ti insegnagno nella UNIT 1, LESSON 2 del libro d’inglese a scuola.
Mi raffiguro immaginari cartellini attaccati alle cose, come nei libri delle parole di Sandrino e Zigo Zago o Alto basso largo stretto.
Non che non sapessi i termini perché qui si dicono in maniera diversa: è proprio che non li avevo mai imparati. Posateria: cutlery, una parola che solo a dirla è tutto un challenge, perché ti mette in moto tutti i muscoli che non sapevi di avere nell’apparato fonetico, caraffa per l’acqua: water jug (mai sentìa!), tovaglia: tablecloth, le preghiere: grace (singolare: perché??!! mah!), el tocio dea carne: gravy, and so on, tra cui la mia preferita: saucer, che io all’inizio pensavo fosse chissà cosa (tipo salsicce?), e invece non è altro che il piattino da caffè (non si capisce per quale arcano motivo non si dica coffee dish, dato che va sotto alla coffee cup!).
Così come mènens è maintenance (A.A.A. sillaba perduta cercasi), la manutenzione, cioé le pulizie, Toràno è Toronto, e lolbì è quando di acqua ne vogliono poca (a little bit), ho imparato a chiamare ‘nìra la mia collega Anita Diaz, che se la chiamo Anita col cacchio che si gira, e a dire r’sòro per comunicare in cucina che al tavolo 12 desiderano dell’altro risotto, se no non vengo capito.
Nessuno sa dire la ‘r’ all’italiana (tecnicamente detta, scopro – thanks God once again for Wikipedia! – vibrante alveolare) e così la trattoria, una sala adiacente dove a volte si tengono degli eventi minori, diventa The trat, pronunciato alla siciliana (arrivando quindi vicino ad una pronuncia italiana!): ciet.
Ho mandato a memoria tutte le frasette gentili di accoglienza tipo: “I’ll be your server tonight”, che a me ogni santa volta fa venire alla mente immagini che non dovrebbero essere citate in un blog in cui potrebbero imbattersi anche dei minori.
Se non sei sicuro se hanno finito di mangiare chiedi: “Are you still working on that?”, come se mangiare fosse un lavoro (e, a vedere la stazza di alcuni canadesi, può davvero essere così).
Pare strano, essendo un centro di CULTURA ITALIANO, ma parlare italiano non sta bene, perché, mi dicono, non sei capito dai colleghi e potresti dire delle brutte cose.
Così mi son guardato bene, alla cena dei trevisani nel mondo, di far trapelare che avevo perfettamente compreso il commento del tavolo 25 quando si sono lamentati del fatto che fossi tegnoso col caffé: “‘sto qua l’è de brasso curto!”.
Il fatto è che non ne avevo più nella coffee pot e mi toccava farmi tutto il salone fino in cucina e ritorno.
Ho sorriso guardandoli come per dire: “Non capisco…” e mi sono sentito per un attimo come uno che detiene i segreti del mondo (Chi è il vero mandante dell’omicidio di Kennedy??!!): allora io, e ora i miei 25 lettori (2/Fine).
Blog Comments
gujo
Dicembre 3, 2010 at 10:02 am
Grandissimo coi trevigiani e il cofè! Capire senza che gli altri sappiano che tu capisci è una fantastica soddisfazione!… E' come sapere di avere la carta vincente per sbaragliare il tavolo come e quando vorrai, anche se magari deciderai di non giocarla mai. Una sensazione di superpotenza meravigliosa!